Finanziamento pubblico, IrpiniaCambia: obiettivo e non strumento

“Anche in Irpinia, sono tanti gli esempi di finanziamento pubblico speso nella ricerca di un consenso e molto poco nel tentativo di trarne utilità per il territorio, la sua carenza di servizi, di appeal produttivo, di occupazione”. E’ quanto sostiene in una nota il comitato IrpiniaCambia del Partito Democratico. “Volendo dar retta alle migliaia di studi di fattibilità allegati alle richieste di finanziamenti, ottenuti o non concessi, per la riqualificazione e “messa in produzione” dei beni cult…

“Anche in Irpinia, sono tanti gli esempi di finanziamento pubblico speso nella ricerca di un consenso e molto poco nel tentativo di trarne utilità per il territorio, la sua carenza di servizi, di appeal produttivo, di occupazione”. E’ quanto sostiene in una nota il comitato IrpiniaCambia del Partito Democratico. “Volendo dar retta alle migliaia di studi di fattibilità allegati alle richieste di finanziamenti, ottenuti o non concessi, per la riqualificazione e “messa in produzione” dei beni culturali, la provincia di Avellino dovremmo vederla come una Edenlandia del “tipico”, del culturale, dell’antropologico. La realtà, invece, sono le decine di strutture museali, di “invasi spaziali”, di chiese e castelli restaurati, finanziati e chiusi per mancanza di gestione, o meglio, per difetto di obiettivo.
Le motivazioni delle richieste di finanziamento pubblico, infatti, sono, in generale, quanto di più retorico, demagogico, contraddittorio si possa recuperare tra i “copia e incolla” sparsi nel web. Esattamente quel che serve per essere in linea con le capacità cognitive dei funzionari regionali e ministeriali, addetti alla selezione.
La conseguenza principale, – prosegue la nota – è la spesa di milioni di euro per strutture che seppur concluse, non apriranno mai e semmai aperte, non giustificherebbero mai la loro esistenza, diventando enormi pesi per i bilanci delle amministrazioni proprietarie. Molto spesso, una struttura finanziata, diventa più utile lasciarla deperire. In questo modo, si crea la possibilità di metterla al centro di nuove richieste di finanziamento, quindi, di nuove ricerche di consenso. Allo stato dell’arte, i beni culturali in Irpinia, frequentemente, assolvono alla sola funzione di “fabbriche del finanziamento”. La Città capoluogo, non è da meno. “Ex Gil”, “Villa Amendola”, “Casina del Principe”, Parco “della Pace”, Parco “Santo Spirito”, Parco “piazza Kennedy”, Chiesa del Carmine, Mercatone ad Avellino, le chiamiamo “scatole vuote”, strutture nuove o esistenti, realizzate o restaurate. Tutte vuote, sottoutilizzate o, comunque, malgestite.
Figlie della logica del finanziamento pubblico quale “obbiettivo” e non “strumento”, dopo iter annosi per l’ottenimento dei fondi, imbarazzanti percorsi nella loro spesa, oggi giacciono, tutte insieme, nel cuore del capoluogo, completamente “spente”. Prima e durante la spesa dei fondi, sono state vocaboli di consenso elettorale. A tutti i livelli: dal burocrate, al politico di maggioranza a quello di minoranza, da chi c’era, a chi voleva starci. Frotte di consulenti, “co.co.co.”, associazioni, enti sono stati raggiunti dalla chimera di un “posto al sole”, di una rendita, chiaramente parassitaria ottenibile tramite l’appoggio “a questo” o “a quello”. La vita (politica) di un consigliere comunale è corta, quella di un assessore ancora minore, la data di scadenza di una promessa, quindi, infinitamente più breve. Paradossalmente, con proporzione inversa alla sua capacità di realizzarsi. Così, in un Comune in cui solo i burocrati possono avere l’illusione di sopravvivere a se stessi, la ragione di riempire con credibilità le “scatole vuote” avellinesi non è mai stata presa in seria considerazione. Non è mai esistita la necessità vera di aprire queste strutture, dar loro una ragion d’essere, un ruolo nella tessitura di un filo rosso che legasse le iniziative comunali e, soprattutto, concrete ipotesi di auto-sostenibilità.
In questo, la classe dirigente avellinese, però, ha sempre potuto contare sull’appoggio della demagogia popolare. Viviamo, infatti, una terra in cui è ancora forte la convinzione che ogni cosa pubblica debba essere ovvia, gratuita o quantomeno disponibile in maniera illimitata ed a “costi politici”. Ovvero, nonostante la dichiarata sfiducia nella Politica, la frequenza delle lamentazioni “pseudogrilline”, il diffuso sconforto sul livello dei servizi di Avellino Capoluogo, il “pubblico”, comunque, è considerato il gestore necessario di tutto, dall’asilo al teatro. Ed il suo ruolo, non quello di orientare, programmare le attività economico-culturali (quindi, sociali) di una comunità, ma di garantire un pò di tutto a tutti, a poco.
Ad Avellino, immaginare che il degrado che avvolge tutto il patrimonio pubblico cittadino non sia solo figlio di cattive azioni, ma anche di un metodo limitato nei mezzi e nelle competenze, è in generale cosa difficile. In questo modo, chiunque sia dotato di poteri decisionali ad Avellino, ha potuto anche giustificare la marineria delle sue promesse con l’eterna scusa circa la “impossibilità di reperire i fondi pubblici necessari”. Anzi, di necessità virtù, la mancata promessa, spesso diventa anche argomento politico da spendere contro gli enti superiori. Specie se a conduzione partitica opposta.
Eppure, potrebbe non essere così. In altri luoghi, con qualità della vita migliore della nostra, non funziona solo così. La capacità di saper individuare strumenti che garantiscano la “governance” pubblica di un bene a “gestione” privata, permette garanzie sulle finalità dei contenuti culturali ed economici (quindi, sociali) di strutture ed iniziative pensate per la collettività. Anche la progettazione di nuove iniziative, diventa frutto di un farsi carico della comunità nell’insieme delle sue componenti e non solo delle sue lobby. Sopratutto, l’impresa privata quale risorsa della funzione pubblica, diventa il metodo di proporre l’impresa culturale quale alternativa credibile a quella neoindustriale”.

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