La generazione che va dai sessantenni in su è cresciuta con il mito desunto dalla celebre poesia di Aleardo Aleardi, il decadentista che tradusse in versi, aggiungendovi un po’ di fantasia, il dramma di Corradino di Svevia, il principe che era “alto, era biondo, era beato”.
Ma la ricostruzione storica dell’evento richiede sforzi di ricerca che vanno oltre la fantasia. Un’impresa assolutamente complessa, perché tutto avvenne, nel giro di soli sedici anni, verso la fine del 1200 e le fonti, dirette, sono poche.
La difficoltà della ricostruzione non ha spaventato Lino Zaccaria che per anni è andato a scavare alla ricerca di tutto quello che poteva contribuire a far luce sulla vita, sull’avventura e sulla morte dell’ultimo rampollo degli Svevi, sceso in Italia dalla natia Baviera per tentare di riprendersi quel trono che era stato del padre e del celebre nonno, Federico II.
Lo sfortunato tentativo del giovanissimo principe svevo si tradusse in una tragedia, che trovò l’epilogo proprio a Napoli, in quella che è oggi piazza Mercato, e che si consumò sotto gli occhi commossi e atterriti di migliaia di cittadini, radunati apposta perché quella decapitazione fungesse da monito.
La descrizione della decapitazione di Corradino di Svevia è il “piatto forte” della ricostruzione che l’autore ha proposto ai lettori con “L’aquilottto insanguinato”, edito da Graus, in questi giorni in libreria.
La citazione letterale delle fonti consultate è una consuetudine che Lino Zaccaria ha mutuato dalla sua lunghissima esperienza giornalistica e che, come asserisce nella premessa, deliberatamente ha inteso seguire. Lo sottolinea nella prefazione anche Pietro Gargano: “La scrittura è sorvegliata, semplice, volutamente scarna, perché la ricerca della verità non ha bisogno di abbellimenti di maniera. Eppure queste pagine si leggono in un solo respiro, perché lo stile di un cronista vero è fatto di ritmo, di pause sapienti, di idee incalzanti. Il racconto dell’esecuzione è emozionante, nonostante sia privo di toni truci, di dettagli sanguinolenti, di particolari di fantasia come il guanto di sfida lanciato dal morituro, come l’aquila svolazzante. E’ perfetta l’atmosfera di macabro stadio, con la folla accorsa allo spettacolo della morte, con il tappeto rosso fino al palco del boia, orrenda forma di rispetto fasullo per il condannato”.
Completata la ricostruzione storica, dedicato un lungo e significativo passaggio al testo e all’analisi della poesia di Aleardo Aleardi, l’opera si chiude con due “chicche”: l’intervento di Ciro Discepolo che descrive il quadro astrale del protagonista e conclude che era scritto nel destino che dovesse morire tragicamente. E infine con un’intervista ad una medievalista di fama, Gabriella Piccinni. La quale, facendo violenza al suo impulso di “terzietà”, alla fine conclude che fra i due, Corradino e Carlo d’Angiò, la figura del primo è quella verso la quale si indirizza la più naturale simpatia.
Elena Picciocchi