Con questa rubrica vogliamo fare conoscere i tantissimi irpini che si sono fatti apprezzare fuori dai confini provinciali, le cosiddette eccellenze, persone che vengono molto considerate altrove, difficilmente nella provincia di Avellino.
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Carmine de Vito è nato ad Avellino il 13.06.1974, nel 2000 si Laurea in Giurisprudenza con una Tesi in Diritto Internazionale “Il Mercosur e il processo di integrazione latino-americano” con il Ch.mo Prof. Massimo Panebianco; consegue nel 2002 il Diploma di specializzazione post-laurea in “Relazioni Internazionali e Funzioni Internazionali”, attualmente svolge attività di ricerca presso lo IASSP di Milano ( Istituto Alti Studi Strategici per la Leadership) prestigioso Istituto di Ricerca nel campo della Governance e della formazione della classe dirigente, realizza diverse pubblicazioni con argomenti di carattere internazionale. Viene ritenuto, a giusta ragione, un esperto di studi, diritto e cultura del mondo latino-americano. Collabora con “Affari esteri”, pubblicazione trimestrale di alto profilo culturale. Sull’ultimo numero ha realizzato uno studio che vi proponiamo per sottolineare le sue qualità e soprattutto per dare visibilità a una delle tante “eccellenze” che la provincia di Avellino esprime, in tanti settori, ma spesso sconosciute a tanti irpini.
di Carmine De Vito
I tempi della Storia e le condizioni che determinano i processi geopolitici sono oggi terribilmente rapidi, specie da quando i suoi attori sono totalmente svincolati da logiche di blocco o di sistema.
La geopolitica si è, quindi, rimessa a correre e le condizioni di nuova centralità internazionale del subcontinente americano e della sua coesione e integrazione si sono, man mano, prima ridimensionate, poi affievolite, fino a spegnersi.
In così poco tempo, infatti, la stella politica di Ignacìo Lula da Silva, mentore e riferimento di qualsiasi proposta politica (da Sinistra a Destra) in America latina, è stata triturata e logorata in un processo mediatico, che ha riportato il Brasile da potenza regionale e player mondiale alla sua storica
e cronica instabilità.
Chiusa è la partita nel Venezuela del dopo Chavéz, Paese sull’orlo della bancarotta e della guerra civile, poi in Argentina, dove l’elezione di Macri ha riposizionato il Paese nella scia degli aiuti e del sostegno dalle agenzie mondiali di credito; e tralasciando Correa (Equador) e Evo Morales (Bol via), la cui forza (per dimensioni e risorse) può essere solo complementare, mai autonoma.
Del “Rinascimento latino-americano” non è rimasto nulla. Nel bene o nel male questo Sud America è ormai altra cosa. In questa prospettiva e in queste condizioni deve leggersi il voto in Colombia nel plebiscito sulla pace.
L’accordo siglato all’Avana (Cuba) il 24 Ago sto 2016, dopo quasi quattro anni di negoziati, ha avuto la sua simbolica rappresentazione a Cartagena il 26 Settembre dello steso anno, nella firma congiunta con il “baligrafo”, una pallottola trasformata in penna, tra il Presidente colombiano Juan Mauel Santos e il Comandante delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Clombia) Rodrigo Londoño Echeverri, nome di battaglia Timochenko.
Il referendum (Plebiscito por la Paz) voluto da Santos doveva ratificare lo storico accordo ma, nonostante tutti i sondaggi favorevoli, ha visto la vittoria del No.
Gli elettori erano quasi 35 milioni, ma i voti espressi sono stati soltanto 13 milioni. Il 50,21 per cento ha detto No, il 49,79 per cento, invece, ha sostenuto il Sì. Meno di 54 mila voti di differenza tra i due schieramenti, ma circa il 60 per cento degli aventi diritto ha scelto l’astensionismo.
Santos poteva ratificare lo storico accordo attraverso l’elezione di un’Assemblea Costituente e le stesse FARC, con Timoleon Jimenez, capo delle operazioni militari, avevano sostenuto tale opzione, intuendo la vulnerabilità di una società lacerata.
Santos ha, quindi, commesso un grave errore politico nel decidere di indire un referendum su un tema delicato come la riconciliazione nazionale.
Le parti si sono confrontate sin da subito con autorevolezza e reciproca legittimazione, mostrandosi al Paese tutto come soggetti responsabili dei drammi del conflitto, delle rivendicazioni storiche e delle rispettive manipolazioni.
Il negoziato è stato serio e ha registrato un grande favore internazionale: l’impegno personale di Papa Francesco; il soste gno dell’Unione Europea che, dopo l’accordo di libero scambio del 2012, ha nel 2015 eliminato il visto di ingresso nell’area Schengen e cancellato le FARC dalla lista delle Organizzazioni terroristiche; l’appoggio di Ban Ki-Moon, che aveva partecipato alla cerimonia del 26 Settembre 2016, assicurando la più alta attenzione dell’ONU, ufficializzata con la Risoluzione 2307 del Consiglio di Sicurezza.
Il disarmo della guerriglia di matrice socialista-rivoluzionaria avrebbe dovuto essere monitorato e guidato con molta accuratezza direttamente dall’Organizzazione delle Nazioni Unite.
La coeva presenza degli attori, garanti e tutori di resilienza, doveva proteggere l’accordo in una nuova prospettiva modernizzatrice e di crescenti opportunità, attraverso la camera di compensazione di un’Assemblea costituente per la ratifica.
Santos, che era stato rieletto nel 2014 con la promessa di un accordo pacifico con la guerriglia, ha prestato il fianco due volte: ha peccato di “narcisismo”, chiedendo da caudillo il bagno di folla, la vittoria popolare, tentazione politicamente irresponsabile e, cosa ancora più grave, ha dato la possibilità ai maestri della paura, nazionali e internazionali e agli utilizzatori della “guerra permanente”, di rientrare in gioco con il loro vecchio
armamentario a disposizione.
Un articolo premonitore, datato 1 Ottobre 2016 su “El Pais”, firmato da John Carli, giornalista e saggista inglese dal titolo Lo mejor y lo peor de la humanidad, recitava testualmente “en Colombia convive gente de inusual nobleza e inteligencia con cinicos y manipuladores como Alvaro Uribe”.
L’articolo di “El Pais”, favorevole al Si, è la fedele rappresentazione del clima di rancore con cui la società è andata al voto e la contemporanea rilegittimazione politica dell’ex Presidente Uribe, che ha saputo riorganizzare la ultra-destra consenservatrice su una piattaforma antigovernativa e neoisolazionista.
Ben presto l’impegno per una soluzione pacifica del conflitto, dalla speranza per un nuovo corso di riconciliazione nazionale e di integrazione internazionale è scivolato sul piano della indignaciòn e della lacerazione nel rancore e nella paura.
Errore strategico grave, quello di Santos che, da tutore di resilienza, aveva il dovere di proteggere l’accordo, tenendo insieme prospettiva e società in un nuovo corso e, soprattutto, il non aver intuito che nella discussione popolare Alvaro Uribe, desideroso di rivincita, sarebbe divenuto il terminale di tutti gli interessi di “normalizzazione”, dei rapporti di fiducia con le imprese continentali e delle posizioni di privilegio in un Paese bloccato.
La campagna per il No ha goduto di un’immensa disponibilità finanziaria, circa 1.300 milioni di dollari. Tra i pù impegnati figurano il Gruppo Ardila Lulle che controlla RCN TV, il Gruppo Bolivar, leader nel ramo assicurativo e del risparmio, il Gruppo Uribe, fashion marketing , e la Colombiana de Comercio, la più grande impresa di import-export del Paese.
Possiamo fare delle analisi sociologiche su un Paese che non è riuscito a sostenere l’urto di una propaganda “sucia ”, una propaganda che ha parlato al ventre molle di una comunità tormentata da decenni di violenze, manomissioni e vendette, ma non possiamo distogliere l’attenzione sul potente blocco sociale ed economico, nazionale e internazionale, che ha brigato per bloccare e poi normalizzare il nuovo corso.
Il blocco del No risponde a politiche di conservazione ed autotutela per il controllo delle immense risorse energetiche (petrolio e carbone), minerarie (oro), degli investimenti sulle infrastrutture e sulla sicurezza, con enormi spazi di economia grigia.
L’economia da “guerra permanente” ha prodotto posizioni di privilegio e di corruzione in ampi strati dello Stato, del parastato e delle loro oligarchie economiche di riferimento.
Il No al “fin del conflicto” ha avuto uno strisciante, ma dominante sentimento antieuropeo: il timore che la modernizzazione della società colombiana chiudesse spazi ai patriarcati economici e sociali, ai circuiti del riciclaggio e della corruzione, attraverso l’adesione a standard di trasparenza commerciale.
I soggetti più inquieti sono stati, da un lato, l’Esercito, che con il Plan Colombia ha assunto posizioni di contiguità con le nomenclature locali e con gli enormi finanziamenti che sarebbero diventati a rischio e, dall’altro, la Chiesa Evangel ica, pilastro del sistema educativo e formativo, quindi dei consumi made in USA. La Chiesa Evangelica ha seminato, infatti, una campagna di panico omofoba e sulla corruzione dei costumi, della famiglia naturale, profetizzando, inoltre, una deriva “venezuelana” nella limitazione della proprietà privata.
Nonostante vi sia una società civile ben strutturata, una nuova borghesia e centri universitari di eccellenza come l’Externado, la Los Andes e la Naciònal, la Colombia resta un arcipelago di contradizioni, che si sono riflesse nella mappa del voto.
L’astensione, storicamente alta, risponde ad un sistema costruito su una conventio ad escludendum di ampi strati di popolazione marginalizzata, facilmente condizionabile con la leva della clientela o della forza. In Colombia il voto di opinione è ancora minoritario.
Questi meccanismi questi sono stati attivati in molte zone rurali che, in percentuale, hanno votato più che nei centri urbani. Nelle zone più colpite dal conflitto con le FARC c’è stata una netta maggioranza per il Sì, così come a Bogotà, Cali e Barranquilla. Gli altri maggiori centri urbani, Medellin, Bucaramanga, Cucuta, Pereira hanno votato decisamente NO. Medellin e tutta l’Antioquia – la regione di Uribe, con fortissimi interessi nel il latifondo – ha votato massivamente per il No (75 per cento), mentre tutta la zona costiera caraibica, dove era cons iderato maggioritario il Si, si è registrata un’affluenza scarsissima per la coincidenza dell’uragano Matthews, che ha costretto molta gente a casa.
Ci sono stati centri come Toribìo nel Cauca e Bojayá dove il conflitto ha raggiunto una violenza disumana, in cui la percentuale per il Si è stata del 95 per cento, mentre altre zone, totalmente estranee al conflitto, hanno aprioristicamente considerato inaccettabili le condizioni dell’Accordo.
Il dramma di questo voto sta in questa contraddizione: il sentimento di perdono delle vittime e il rancore di chi è stato soltanto spettatore.
Più di mezzo secolo (52 anni) di conflitto armato; un conflitto viscerale, che nasce con il Botogazo (la morte di Bogotà), quando la Capitale vide morire le sue speranza di riscatto con l’assassinio di Jorge Eliécer Gaitán il 9 Aprile 1948, candidato indipendente per il Partito Liberale per le elezioni del 1950, e l’inizio del periodo conosciuto come La Violencia .
Le repressioni successive trovarono nel Paese la resistenza di gruppi di contadini e militanti comunisti, uniti attorno ad esperienze di autodifesa, fino all’organizzazione delle FARC nel 1964, con l’appoggio dei Paesi del blocco socialista e di Cuba.
Il conflitto, negli anni, ha assunto le forme brutali di una guerra sanguinaria e senza scampo per le popolazioni inerti, dilaniate dal terrore, dalla crudeltà delle formazioni paramilitari e dalle ritorsioni attuate da entrambe le parti.
Le cifre sono drammatiche: si contano oltre 260.000 vittime, 16.000 sequestrati, 11.500 minori reclutati e decine di migliaia di esiliati e rifugiati all’estero. La crudezza delle cifre si è, nel corso degli anni, confusa – senza alcuna compassione – con gli ingenti profitti del narcotraffico e dell’economia di guerra, saldando il Paese in una gigantesca fortezza geo-economica.
Il processo di pace deve essere contestualizzato, necessariamente, nell’area geopolitica di riferimento, con i suoi legami
storici e gli interessi sottesi.
Elemento di novità di questo processo di ri conciliazione è l’alto profilo internazionale, che ha concesso al Paese nuove opportunità
e responsabilità. L’Europa e la comunità internazionale hanno, al di là dell’accesa campagna referendaria, ancorato la Colombia che, dopo lo shock della prima ora, ha dovuto mostrare in tutte le sue anime un atteggiamento maturo e rassicurante: seguimos en este camino, senza mettere in discussione il “cessate il fuoco”.
Il Nobel alla pace attribuito al Presidente Juan Manuel Santos dall’Accademia di Oslo il 7 Ottobre 2016 (la Norvegia è stato uno dei due Stati garanti del negoziato di pace) è un ulteriore e importante sostegno ad un uomo politico, che, pur avendo commesso errori, ha avuto il coraggio di imma ginare per il suo popolo una nuova dimensione storica ed internazionale.
“Santos del Inferno al Paraiso” titolava “La Seimana” sulla sua pagina online dopo la notizia del Nobel per la pace; un premio alla costanza ed alla responsabilità, come l’immediata volontà di voler devolvere il premio in favore delle vittime del conflitto.
Ci sono tutte le condizioni per un nuovo corso. Condizioni, energie, speranze, garanzie e soprattutto una società non più blindata, ma recettiva e pervasa da sentimenti di ricostruzione e integrazione. La strada per passare “del Inferno al Paraiso” è sempre stretta, ma adesso gli argini sono più solidi e coesi.
Del resto, siamo sempre nel Paese di Macondo.