“Terrone torna a casa tua, qui non ti vogliamo”

Riceviamo e pubblichiamo integralmente il racconto inviatoci da Andrea Forgione.

Alla fine della prima media mio padre decise che dovevamo trasferirci a Fiorano Modenese , dove lui aveva trovato lavoro in una fabbrica di mattonelle. Ci servivano i soldi per ricostruire una   vecchia casa che avevamo appena comprato. Fiorano era un posto  carino: non molto grande, situato in pianura , con inverni nebbiosi ed estati afose, regno dalle zanzare. Poco male, le zanzare non mi pungono, mi possono camminare addosso ma non amano il mio sangue. La nostalgia di Paternopoli mi assali quasi subito. Niente fiume dove fare il bagno, poche lucertole da catturare, niente piazzetta  dove giocare scalzi  a nascondino  , niente frutta da rubare. Solo macchine, fabbriche  ed un dialetto sconosciuto , quasi uno slang francese. E venne il primo giorno di scuola.

Fui assegnato alla seconda media sezione B. Entrai in classe e mi sedetti in un banco singolo , l’unico libero. Pochi minuti ed entro’ l’insegnante di italiano. Fece l’appello e per ultimo indico’ me. Uso’ queste parole: “Ragazzi, quest’anno abbiamo  un nuovo compagno di scuola, viene da Avelino”. Poi mi fece alzare per presentarmi. Fu allora che in dialetto paternese  articolai  alcune parole che per tutti risultarono incomprensibili, compreso per la professoressa. Tutti risero, qualcuno si spinse a domandare se Avellino fosse in Italia. Mi risedetti come se un macigno mi fosse crollato sulle spalle. Terminata l’ora  di lezione arrivaro i cinque minuti di intervallo. Una ragazzina alta e magra, Angela Beltrami, anni dopo deceduta in un incidente stradale, mi si avvicino’ e mi tocco’ il braccio. Poi, con la stessa mano, tocco’ un altra ragazzina dicendo di aver  toccato l’animale terrone. Questa a sua volta tocco’ un’altra ragazzina e cosi via. Ognuna di loro appena sfiorata faceva una faccia schifata e gridava come in un delirio collettivo.

Un gioco, si solo un gioco, ma crudele e razzista. Ed io lì, in piedi, fermo nel corridoio a guardare e subire i loro insulti. Uno scatto d’ira mi assali ed allora spinsi per terra l’ultima ragazzina toccata dalle amiche che aveva avuto la sfrontatezza di dirmi “Terun, torna a casa tua”. A quel punto tre maschi, con in testa il piu’ grosso della classe, mi circondarono e presero a darmi botte.  Fui salvato dal bidello, meridionale anche lui di Nardò (Lecce), che mi porto’ in bagno per mettermi l’acqua sul viso e per consigliarmi di sopportare, tanto alla fine mi avrebbero accettato. Per due giorni non andai a scuola, poi mio padre mi impose di tornarci. Appena entrato in classe riprese il gioco crudele  con la  gang sempre piu’ in vena di angherie.

Una mattina eravamo tutti davanti alla scuola in attesa del suono della campana, io da solo appoggiato ad un muretto,  quando quattro ragazzini si fecero  avanti per ordinarmi di tornare a casa. Questa volta , pero’, prima che il capo potesse mettermi le mani addosso gli applicai la tecnica appresa in piazza Angelo, da Scipione, al secolo Volpe Giovanni, attuale comandante dei vigili urbani di Paternopoli: appena fu a tiro gli diedi una sonora testata sul naso. Il ragazzo cadde a terra  con il sangue che usciva copioso dalle narici. Disteso a terra con la faccia sanguinante non faceva più tanta paura. Alla vista del sangue gli amici  del  piccolo boss  scapparono  mentre gli altri  si girarono a guardarmi. Io, invece di fuggire, li sfidai: “Qualcun’altro vuole fare la stessa fine?”. 

Suonò la campana e rientrammo. Il ragazzino fu portato in ospedale e di lì a poco giunsero i suoi genitori ed io fui convocato in presidenza. Fui redarguito pesantemente, ma nessun provvedimento fu preso, perche’ l’episodio era avvenuto fuori dall’orario di  lezione,  ad esclusione del fatto che   mio padre dovette andare dal preside il giorno dopo. Da quel giorno nessuno piu’ si prese gioco di me, anzi, mi evitarono totalmente . E questa cosa mi feriva piu’ del giochino crudele delle ragazzine, che nel frattempo avevano smesso  di praticarlo. Furono settimane di disagio e riflessione. Infine compresi che un problema esisteva: non sapevo scrivere e parlare in italiano. Fu così che un pomeriggio mi recai al comune di Fiorano, dove mi avevano detto c’era una fornitissima biblioteca comunale. Era un ambiente grande, a due piani, con scaffali enormi pieni di libri, divisi per letteratura. La signora, gentilissima, mi accolse e mi chiese di cosa avessi bisogno. Io risposi: “Voglio imparare l’italiano”. Lei allora disse: “Ragazzino, per imparare l’italiano devi leggere, leggere e leggere”. Fu così che mi fece l’iscrizione e mi consegnò tre libri di avventura. Dopo pochi giorni ero di nuovo in biblioteca per restituirli.

Le settimane passavano e la signora mi guidava nella lettura scegliendo i libri per me. Finite le ore di  scuola prendevo i miei libri e salivo al santuario-castello di Fiorano, una chiesa  posta su una piccola collina da dove si godeva il panorama del  paese e sull’intera pianura. Poi un giorno chiesi alla signora la Disubbidienza di Moravia. La signora me lo diede ed aggiunse “da oggi in poi scegli da solo i libri”. In un anno lessi  Verga, Svevo, Pirandello, Montale, Proust, Joice, Kafka, Hemingway, Dostoevskij ed il mio preferito Hermann Hesse. Il risultato fu che verso la fine dell’anno i miei risultati scolastici erano cresciuti  in maniera esponenziale, fra lo stupore dei compagni. L’anno volgeva al  termine ed un giorno la professoressa di italiano diede tre tracce per l’ultimo compito in classe. Io scelsi la traccia di attualità che verteva proprio sulle nuove emigrazioni. Dopo tre giorni venne il momento della consegna del compito.  L’insegnante era solita chiamare per nome l’alunno  che doveva andare alla cattedra per ascoltare il giudizio e ricevere il voto. Chiamò tutti fuorchè me. Allora chiesi di sapere il mio voto. Lei,  rivoltasi alla classe disse: “Ho tenuto per ultimo il tema di Andrea perché è bellissimo, il più bel tema che abbia corretto negli ultimi anni. E’ un elaborato scritto in un italiano corretto e dai contenuti profondi  che denotano una sensibilità rara e preziosa. Bravissimo Andrea, in questo anno hai fatto un ottimo lavoro. Ti dò il voto più alto nella mia materia”.

E poi lesse il tema e nel tema c’ero io, il ragazzo del naso rotto, le ragazze, la professoressa. C’eravamo tutti,  compresa Nadia Frigeri, la più bella ragazzina della classe. C’era Paternopoli, Fiorano, mio padre, il padre del ragazzo sanguinante, il preside. C’erano le nostre storie. Finì la scuola e fui promosso. Al quel punto mio padre mi permise di tornare finalmente  a Paternopoli per le vacanze. La  partenza era fissata  per  il lunedì successivo. Nel pomeriggio  salii come al solito sulla collinetta del santuario. Ero seduto sulla panchina  a leggere quando vidi tre ragazzine in bicicletta. Si avvicinarono. Erano tre compagne di scuola e una era Nadia, la biondina. Scesero dal sellino, Nadia mi salutò e disse: “Andrea , ti farebbe piacere venire sabato al mio compleanno?”.  La guardai e rimasi in silenzio, temendo uno  scherzo di cattivo gusto. Ma Nadia insistette: “Mi farebbe piacere, davvero. Lo faccio a casa mia sulla strada per Spezzano. Puoi venire in bici se vuoi”. Le risposi: “Nadia non ho la bicicletta, ma verrò”.

Le tre ragazzine risalirono e si allontanarono. Sabato sera andai a casa di Nadia a piedi. Aveva una casa bellissima: una villetta con giardino e diverse macchine costose  parcheggiate nel viale. Suonai  e subito venne ad aprirmi la festeggiata. Era davvero la piu’ bella della classe. Fu cordiale e mi fece entrare. Mi presento’ ai suoi genitori, due  persone perbene. La madre, forse di origine austriaca,  disse: “Andrea, Nadia ci parla spesso di te. Eppure non sembri un meridionale. Sei biondo con gli occhi chiari. Pensavo fossi scuro con i capelli neri. Mio marito una volta, durante il servizio militare, e’ stato ad Avellino, e’ molto lontano da qui?”. “Signora circa 700 chilometri”, le risposi.  Cominciò la festa, mangiammo poi misero su la musica. Io uscii fuori in giardino e covavo l’intenzione di andarmene  quando Nadia  mi raggiunse  fuori e mi invito’ a ballare. Un ballo veloce di gruppo, ma nel gettarmi in pista mi teneva per mano, la stessa mano che pochi mesi primi mi aveva trattato come un lebbroso. Per quel gesto non l’avrei mai piu’ amata, ma, adesso, quella stessa mano mi restituiva la  dignita’ di essere umano. Alla fine della terza media mi iscrissi al liceo scientifico  mentre la maggior parte di loro preferì scuole con diplomi finiti.  Non cercai mai di somigliargli. Anzi, mi sforzai di rimanere me stesso, lo scinziato di sempre. Cambiai  compagni e mi feci qualche  amico vero, ma a volte, nonostante siano passati 40 anni,  qualcuno di quella scuola media ancora mi telefona per gli auguri di Natale. I bambini e gli adolescenti sanno essere molto cattivi  ma lo sono sempre perché le famiglie e la scuola insegnano ad aver paura dell’estraneo, paura che genera  l’incomprensione e la diffidenza, anticamera del razzismo.

 Eppure il nostro Cristo è ebreo
e la nostra democrazia è greca.
La nostra  scrittura è latina
e i  nostri  numeri sono arabi.
La nostre  moto sono giapponesi
ed  il  caffè è brasiliano.
Il nostro  orologio è svizzero
e il nostro  cellulare  è cinese .
La  pizza è italiana
e la nostra  camicia hawaiana.
Le  vacanze sono turche,
tunisine , marocchine, egiziane….
 Siamo cittadini del mondo,
non  possiamo rimproverare al  nostro  vicino
di essere straniero.

Apparteniamo tutti  all’unica razza conosciuta, quella umana, diceva Albert Einstein.

Ecco perché proibisco categoricamente ai miei figli termini quali negro, scimmia, zenghere etc. Siamo tutti fratelli. Se bisogna rompere il naso a qualcuno lo si deve fare senza pensare al suo credo religioso, al colore della pelle o alla sua provenienza. Bisogna romperglielo solo perché quello é uno stronzo ed un violento e non ci sono margini per una discussione civile.

 

 

 

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