E’ un incubo che non ci lascia. Oggi sono quarant’anni, il giorno é arrivato.
Un cadenzato e inevitabile rituale.
Perchè le cose di cui leggerete e ascolterete in questa interminabile giornata di ricordi, sono le stesse raccontate dieci anni fa, per il trentennale, stessa retorica offerta per i 25 anni dal terremoto.
Foto, immagini e ricordi che saranno inevitabilmente riproposti tra dieci anni, per il cinquantesimo anniversario: appuntamento al 23 novembre 2030.
Album della rabbia
Al di là della rilevanza di una data tonda e simbolica come il quarantennale, non è un semplice ricordo da lasciare nell’album del tempo.
È uno squarcio nella memoria che latente fa visita a quanti hanno vissuto quel maledetto giorno, raccontato con rabbia dai sopravvissuti, di quanti hanno atteso inutilmente soccorsi e ricostruzione, conforto e occupazione.
E’ il riaffiorare di quel momento del quale i terremotati – termine dispregiativo con cui gli irpini ancora oggi vengono appellati sui campi di calcio – ricordano esattamente dove e con chi erano, che cosa stavano facendo o pensando mentre la terra tremava così forte, alle ore 19 e 34 minuti del 23 novembre 1980.
Per novanta interminabili secondi una scossa ondulatoria e sussultoria vide l’Irpinia quale epicentro, in particolare nei territori di Teora, Sant’Angelo dei Lombardi e Conza della Campania.
I sismografi indicarono la forza del terremoto in una magnitudo di 6.9 nella scala Richter, pari al decimo grado della scala Mercalli che, nella valutazione dell’intensità sismica, che corrisponde a “distruzione completa”.
Il ricordo
Era stata stranamente calda quella domenica su cui il crepuscolo scendeva in fretta.
Le ragazze si organizzavano per andare a cinema o a ballare, aspettando in paese i loro uomini di ritorno dallo stadio dove l’Avellino aveva battuto l’Ascoli per 4-2.
Altri erano nei bar, dove la televisione trasmetteva la sintesi di Juventus-Inter. Conoscevano solo il risultato di 2-1 e, dopo avere visto le reti di Brady e Scirea, aspettavano di osservare il gol di Ambu per l’Inter, per poi andare via.
Non ci fu il tempo perchè, mentre l’interista stava per segnare, mancò la corrente elettrica, i paesi rimasero al buio, travolti dapprima da una furia di vento accompagnata da un boato fragoroso, poi da un movimento che provocava capogiro e non lasciava comprendere cosa stesse accadendo.
Mentalmente si ripeteva : “Ora finisce, ora finisce”, ma non finiva mai. Anzi.
Era come essere in sella a un cavallo da rodeo mentre attorno crollavano le pareti e una luna più grande del solito, beffarda ci guardava.
Un fumo, che in realtà era polvere, si levò mentre il boato si allontanava e le grida si alzavano: “Il terremoto, il terremoto”.
Gente che piangeva, ripetendo a gran voce nomi di familiari, invocando quelli dei Santi, rassegnandosi infine a un evento che avrebbe cambiato la vita di popolazioni e stravolto paesi.
Il cielo divenne rosso, quella notte di quarant’anni fa, una ventata di caldo africano e poi l’aria immobile, perché tutto era già accaduto.
Con le linee telefoniche saltate e senza energia elettrica, fu difficile rappresentare al mondo intero, nell’immediato, una tragedia che fu inizialmente sintetizzata come un fatto di cronaca di cui poco si sapeva.
Prime notizie
Era dai centri delle sedi Rai che provenivano le prime informazioni attraverso la radio nazionale che raccontò di un palazzo abbandonato caduto a Napoli e dei danni causati ad alcune case di Potenza, con la rituale e rassicurante frase: “Non si registrano vittime”.
Si cercava di capire cosa fosse successo ma le radio private trasmettevano solo musica con le ampie bobine registrate, avendo esaurito l’informazione domenicale limitata alle radiocronache delle partite.
Le dirette dai luoghi del terremoto sarebbero iniziate nei giorni successivi.
I primi morti erano stati scavati da poche ore quando le rotative cominciarono a sfornare le copie dell’unico quotidiano regionale, “Il Mattino”: l’altro, il “Roma” di Achille Lauro, aveva chiuso le pubblicazioni 20 giorni prima di quello del terremoto.
Il giorno dopo, il quotidiano napoletano fu costretto a correggersi e dare contezza della reale dimensione della catastrofe, attraverso numeri impressionanti e reali.
Soccorsi lenti
All’alba del giorno successivo al sisma, tra i cumuli polverosi di macerie, si scavava a mani nude alle prime luci dell’alba in un silenzio irreale, sorpresi per ogni brandello di stoffa ritrovato, guidati dall’illusione di avere sentito un gemito sepolto dai crolli, spinti dal coraggio della disperazione.
A dare contezza della disorganizzazione dei soccorsi, della lentezza con cui le colonne mobili raggiunsero le zone terremotate, è interessante leggere il numero di novembre 2020 dei “Quaderni di storie pompieristiche” in cui si raccontano “I giorni del terremoto in Irpinia”.
Oltre ad essere un dettagliato ed emozionante racconto, la pubblicazione dei Vigili del Fuoco rappresenta una denuncia che a distanza di 40 anni è ancora attuale e lascia spazio a riflessioni angoscianti.
Erano Avellino e i paesi arroccati sulle montagne dell’alta Irpinia le zone più colpite.
Ci vollero giorni per comprendere l’enormità del disastro.
Nelle redazioni, attraverso le frammentarie notizie, si comprese che non c’era un modo diverso per sapere e poi raccontare: andare.
Ai cronisti che arrivarono numerosi, la realtà si mostrò peggiore di un incubo, con paesi rasi al suolo.
Le invocazioni di aiuto e soccorso, da parte della popolazione, furono sintetizzate con un titolo a tutta pagina che era il grido di dolore della gente impaurita e infreddolita, senza un tetto nè una speranza.
«Fate presto», urlò “Il Mattino” a caratteri cubitali, tre giorni dopo la scossa che aveva cancellato dalla carta geografica paesi, seminato distruzione e morte, innalzato altari di rabbia e dolore.
Non fu una supplica, ma un monito, ancora oggi attualissimo.
Un grido che risuonò a lungo nella coscienza di un popolo smarrito e di quanti avrebbero dovuto alleviarne le sofferenze
Cominciarono ad arrivare i soccorsi allestendo campi di accoglienza.
Chi ne aveva la forza, restava accanto alle case distrutte, a fare la guardia alla «roba» rimasta sotto le pietre per salvarla dagli sciacalli arrivati in fretta.
Altri aiutavano i soccorritori a scavare i morti dalle macerie, fissando poi con lo sguardo il vuoto i cadaveri raccolti nei cimiteri, vivendo un enorme sgomento in attesa della sepoltura.
Il ruolo dell’informazione
Con il trascorrere dei giorni si sarebbe avuta una dimensione reale della tragedia provocata da quei 90 secondi di terremoto distruttivo.
Il bilancio definitivo contò 2.914 morti, 8.848 feriti e oltre 280.000 sfollati.
L’informazione dell’epoca era frammentaria, i primi reportage furono realizzati tra mille difficoltà.
Le poche radio private irpine – il fenomeno era iniziato da un paio di anni – si affollarono di improvvisati cronisti che andavano in giro calpestando le macerie, armati di registratore e taccuino.
Sui luoghi del sisma avrebbero catturato le testimonianze da mandare poi in onda, raccontando con enfasi l’arrivo di personaggi che avevano visto solo in televisione, giunti in Irpinia per dare solidarietà alle popolazioni colpite da lutti e distruzione.
Da ogni parte del mondo partì lo slancio generoso della solidarietà, anche i calciatori dell’Avellino aiutavano la gente a scavare tra le macerie, ottenendo in cambio un sorriso e un’invocazione: “Dovete vincere per noi”.
Alla penalizzazione di 5 punti in classifica (insieme a Bologna e Lazio) per la condanna relativa al calcio-scommesse, si aggiunsero le difficoltà del sisma.
La squadra irpina giocò a Napoli le sue gare casalinghe, senza un adeguato sostegno dei suoi tifosi.
Nello stadio Partenio di Avellino atterravano gli elicotteri per i soccorsi; arrivò anche quello del Capo dello Stato, Sandro Pertini.
Con il dolore montava la rabbia contro le istituzioni: «Ci hanno lasciati soli», urlarono i terremotati a Pertini che registrò il ritardo inaccettabile dei soccorsi, la lentezza della macchina governativa, la confusione nei centri di coordinamento.
Il Presidente ne fu scosso, andò in televisione e condivise le proteste dei terremotati scatenando un nuovo terremoto, quello politico.
Si dimise il Ministro dell’Interno, Virginio Rognoni: a coordinare i soccorsi arrivò il commissario straordinario Giuseppe Zamberletti, reduce dall’esperienza in Friuli.
Oltre a migliaia di volontari, nelle terre della disgrazia cominciarono ad affluire tanti soldi, attraverso una generosa solidarietà.
Fu così che sulla tragedia del terremoto si innestarono gli appetiti della camorra e di imprenditori spregiudicati.
Le vicende giudiziarie condizionarono la ricostruzione.
Le inchieste giornalistiche ne scandirono i tempi e raccontarono di malefatte che avrebbero costretto la popolazione ad attendere decenni per avere un prefabbricato, dopo avere vissuto nei tendoni, nelle palestre o nelle chiese.
Gente che avrebbe dovuto ottenere presto una casa realizzata coi soldi pubblici, con quella legge 219 che fece arricchire progettisti, costruttori e politici corrotti.
Solo a distanza di tempo, dalle puntigliose ricostruzioni giornalistiche sostenute da atti giudiziari, sarebbero emersi dettagli delle squallide vicende registrate a danno dei sopravvissuti dell’Irpinia per i quali, finita la paura per il sisma, cominciava una nuova odissea con la quale avrebbero convissuto per quarant’anni.
Il ricordo dei volontari, dei soccorritori, è condensato anche attraverso i racconti dei Vigili del Fuoco intervenuti da altri Comandi d’Italia.
Una pubblicazione densa di umanità e ricordi, che invitiamo a leggere cliccando sul link qui di seguito indicato.
Così come proponiamo ai nostri lettori di sfogliare l’album fotografico del disastro, attraverso gli scatti di Pino e Lino Sorrentini, pubblicati su tutti i giornali del mondo, consultabili attraverso questo link (CLICCA QUI)
Quarant’anni dopo.
E siamo ancora al punto di partenza…
FATE PRESTO!