Ci sono imprese che non possono essere trascurate. Storie che finiscono col segnare per sempre la propria vita. È questo il caso di Ivan Giaquinto, un ragazzo di Montoro, che nel 2018 ha deciso di abbandonare il suo lavoro in Australia per tornare in Europa. Fin qui tutto normale, se non fosse per il fatto che il giovane avellinese ha deciso di rincasare in bici. Una scelta dura che, nonostante le difficoltà, lo ha portato a trascorrere un anno della propria vita in luoghi e culture estranee ai più. Una vera e propria scelta di vita che settimana prossima ricomincerà da una nuova meta.
Partiamo rompendo il ghiaccio, chi è Ivan Giaquinto?
«Sinceramente non ho ancora trovato una risposta esatta a questa domanda. Sono un ragazzo di Montoro che ha passato gli ultimi quindici anni all’estero per lavoro. Contemporaneamente ho viaggiato molto in giro per il mondo fino ad arrivare in Australia».
Proprio in Australia è scattata la scintilla per le due ruote?
«L’Australia è stato il punto d’inizio della mia esperienza. Un’ottima partenza sia dal punto di vista economico che dal punto di vista dell’esperienza. L’Australia mi ha cambiato, mi ha permesso di viaggiare e vivere in un certo modo. Ho potuto spostarmi spesso in Asia finché non ho deciso di tornare in Italia. Ad esser sincero, la passione per la bici non c’è mai stata. Ho sempre seguito il ciclismo, ma dal divano. Ho però capito che la bicicletta fosse il giusto compromesso in termini di velocità, ma soprattutto permette di essere a contatto oltre che con la pioggia e col vento, anche con la gente del posto. La bici è innanzitutto interazione».
Pronti via inizia il viaggio…
«Mi trovavo in Australia col visto quasi in scadenza. Ho trovato lavoro in una sorta di motel in una zona remota dell’Australia dove non era neppure possibile comprare una bicicletta. Ho contattato praticamente tutti i negozi di bici della zona fino a spostarmi a Singapore da dove sono partito alla volta dell’Europa. Ho percorso in totale 16mila chilometri attraversando Malesia, Thailandia, Cambogia, Laos, Cina, Kazakistan, Tagikistan, Kyrgyzstan fino a fermarmi a Samarcanda, in Uzbekistan».
Posti remoti e lontani dalla nostra cultura. Cosa ti ha affascinato di più in tal senso?
«Innanzitutto c’è da dire che ho deciso di viaggiare in bici per visitare posti normali, fuori da qualsiasi itinerario, in cui difficilmente sai andato. La rotta era stabilita. Avevo deciso di tornare in Europa, passando per alcuni posti come l’altopiano del Tibet piuttosto che per le montagne del Pamir in Tagikistan. L’itinerario era stabilito quotidianamente ai posti che volevo visitare. Era tutto molto improvvisato ma ciò che mi ha colpito particolarmente è stata l’ospitalità della gente. Ho scoperto di esser rispettato dalle persone del posto. Apprezzavano lo sforzo che stessi facendo. L’ospitalità della gente è stata a tratti inaspettata. Mi fermavano per strada per invitarmi a mangiare a casa o per offrirmi un letto in cui dormire. Ecco, questo mi ha colpito molto anche perché solitamente dormivo in tenda con sacco a pelo e fornello a gas da campeggio».
E le difficoltà?
«Dal punto di vista linguistico non ci sono stati grossi problemi. C’erano ovviamente dei limiti invalicabili ma alla meglio ci si capisce. Non si riesce ovviamente ad avere comunicazioni profonde, ma anche a gesti ci si intende. Poi va detto che quando si viaggia in un certo modo cambia anche la percezione delle difficoltà. Ecco, sotto questo punto di vista non ho avuto grosse problematiche».
Hai mai pensato di mollare?
«Ci sono stati dei momenti in cui mi sono chiesto “Ma chi me l’ha fatto fare?”. Capita in giornate intere trascorse a pedalare sotto la pioggia, oppure quando si devono percorrere strade bruttissime. Mi è capitato anche di impiegare mezza giornata per macinare sei chilometri. È una domanda che qualche volta mi sono posto ma che ho subito rigettato».
Ma come si prepara un’impresa del genere?
«L’aspetto più importante non è la preparazione fisica, quanto l’attitudine mentale. Ogni giorno non sai dove andrai a mangiare, dove dormirai, cosa capiterà. L’atteggiamento mentale va costruito nel tempo. È difficile immaginare di fare un’impresa del genere dal salotto di casa».
Quali sono le motivazioni che ti spingono a fare questi viaggi? Ne hai in procinto altri?
«La scusa del primo viaggio in bici era quella di tornare a casa. C’era gran voglia di scoprire il mondo. In questo caso c’è qualcosa di introspettivo. Sono alla ricerca di alcune domande più che risposte. Ho bisogno di allontanarmi andando verso la fine del mondo per poi tornare. Settimana prossima partirò per Buenos Aires in aereo. Porterò con me la bicicletta e da lì punterò verso Sud, verso la Patagonia per poi risalire il versante cileno. È un viaggio aperto, senza limiti di tempo e di chilometri. Tutto si vedrà strada facendo»
E il luogo che vorresti assolutamente visitare?
«Ce ne sono davvero tanti. In questo momento direi le Ande o la Mongolia. Personalmente sono attratto dalle montagne, dagli altopiani o comunque da luoghi molto remoti».