Dunque, l’avvocato Benny De Maio è stato costretto da motivi di salute a rinunciare alla candidatura a sindaco. Nella sua lettera alla città, ma sarebbe più preciso dire che era indirizzata ai partiti che lo avevano indicato, il professionista avellinese ha spiegato con apprezzabile sincerità di dovere preservare le sue energie per dedicarsi innanzitutto alla sua attività legale (la quale, è appena il caso di sottolineare, sarebbe con ogni probabilità proseguita anche in caso di vittoria elettorale).
Il campo largo avellinese dunque si ritrova punto e a capo, ma in fin dei conti questo rappresenta un punto a favore per la coalizione, dal momento che la candidatura di De Maio non aveva convinto praticamente nessuno, al di là del ristretto gruppo promotore. Le soluzioni per individuare il nuovo candidato sindaco sono al momento tre: insistere su un nome della cosiddetta società civile, individuare un candidato espressione dei partiti, oppure affidarsi alla celebrazione delle primarie.
La prima ipotesi è quella più rischiosa per due motivi: il nome prescelto apparirebbe come una seconda scelta, con tutti i limiti del metodo che aveva già portato alla individuazione di De Maio. L’ipotesi politica appare allo stato dei fatti impraticabile, o meglio insostenibile per il Partito democratico che non sembra avere la forza necessaria per imporre innanzitutto al suo interno prima che agli alleati il nome di un candidato, al netto delle crescenti ambizioni che in queste ore agitano l’area Schlein. Resta sullo sfondo l’ipotesi delle primarie osteggiata con nettezza sino ad ora da quasi tutti i rappresentanti politici del Pd e della sinistra, protagonisti in questi mesi del -finto- tavolo programmatico che in realtà è servito per costruire la candidatura De Maio attraverso il più tradizionale dei caminetti politici della prima repubblica. Era nella quale esisteva oltre a quella del caminetto anche un’altra regola: chi sbaglia si fa da parte.